Tutti noi conosciamo le sensazioni di disagio che stress e frustrazione possono portare nella vita sia a livello fisico che interiore. Solitamente ciò che cerchiamo di fare è attutire i sintomi di stress e frustrazione alla ricerca di una soluzione che permetta a tutte le componenti della nostra vita (lavoro, affetti, amici, ecc..) di quadrare in qualche modo. Possibilmente con il minor effetto collaterale possibile. Stress e frustrazione, anche se sono diversi tra loro, hanno una cosa in comune.
Lo stress nasce come parte del nostro sistema di difesa umano di fronte a minacce vitali (l’incontro del leone nella savana) che adesso sono diventate minacce identitarie, attacchi al modo di vedere noi stessi (non sei quello che credevo, dovresti essere più così o più cosà). La frustrazione, invece, è legata allo scarto che esiste tra le nostre aspettative e la realtà. La cosa buffa è che nel tentativo di risolvere il conflitto che nasce dalla frustrazione ci stressiamo: la vita che facciamo minaccia, ogni giorno, la parte di noi che non vive ciò che vorremmo davvero, quella che si sente frustrata prima e stressata poi. O tutte e due insieme. Quello che accomuna stress e frustrazione è il riferirsi alle credenze che abbiamo nei confronti di noi stessi. Un sistema di credenze estremamente radicato che ci appare come essere un tutt’uno con noi, al quale aderiamo totalmente in modo del tutto spontaneo. Ora, sebbene questo sistema sia necessario per avere una propria identità, dei valori e delle convinzioni, porta con sé un lato oscuro che è la “permanenza” del sistema. Dato che noi agiamo in dipendenza di ciò che crediamo, quella che riteniamo sia la nostra identità guida le nostre scelte e le nostre azioni. Ed arriviamo così al lato oscuro: in questo modo aspettative e minacce al nostro modo di essere sono inevitabili, più l’idea di noi è statica e più percepirà queste minacce, più l’idea di come dovremmo essere è condizionata e più lo scarto con la realtà sarà frustrante. Ma la permanenza, ciò che dà quel senso di identità e continuità alla nostra persona, è davvero così come ci appare? Ce la facciamo mai questa domanda? Com’è che noi siamo fatti come crediamo di essere fatti? E soprattutto, ci piace come siamo e come viviamo? Perché è in dipendenza di quello che pensiamo di noi stessi che determiniamo il modo in cui viviamo, la nostra felicità infelicità, lo stress, la frustrazione, la gioia, l'amore, ecc. Ben inteso, un sistema di credenze è sicuramente necessario per vivere, il punto è non cadere nel tranello della “permanenza”, che ci vorrebbe sempre uguali, al sicuro, protetti da minacce esterne e interne e nella quale qualsiasi differenza tra reale e immaginario diventa un problema. Abbellire o aggiornare la permanenza del sistema di credenze può essere funzionale, ma non risolverà il problema a lungo termine. Stress e frustrazione riemergeranno. Il toro va preso per le corna, dovremmo iniziare ad osservare la radice, ciò che crediamo di noi, e lavorare su quella: prendere le distanze dalla permanenza delle nostre credenze, osservare come siano uno strumento per vivere e non un fine. Saremmo stressati o frustrati allo stesso modo se non fossimo così attaccati alle nostre aspettative e all’idea di noi stessi? Se vedessimo questo sistema di credenze per quello che è, cioè un mero espediente per darsi un’identità, il lato oscuro ci farebbe ancora così male? La paura di scoprirsi persone vuote, senza identità, è il lato più oscuro di questa “permanenza”. La paura di lasciare ciò che conosciamo e la paura dell’ignoto. Una paura che ognuno di noi sperimenta, oltre la quale, però, la piena accettazione del fatto che le cose cambiano e che noi non siamo un’entità fissa ed immutabile rende stress e frustrazione solo un effetto fisiologico e collaterale del sistema attraverso il quale ci diamo una identità e non il centro decisionale delle nostre azioni.



